Armani, Valentino, Dolce&Gabbana, Versace, Gucci sono solo alcuni dei nomi illustri nel campo della moda, un’eccellenza italiana che ogni anno richiede personale, pubblicità e impegno a tutti i livelli. Ogni stagione ha i suoi outfit e ogni anno i suoi must.

La crisi economica, tuttavia, per quanto lasci inalterata l’arte degli stilisti e la magia delle passerelle, fa sì che noi comuni mortali possiamo solo cercare di imitarla rivolgendoci al low cost, più accessibile e, almeno in apparenza, praticamente identico alle grandi firme.
Infatti, la moda cheap&chic ha reso reale l’eleganza, assegnandole canoni e regole precisi, ma che variano in base alle proposte stagionali. Dunque, ciò che era segno di distinzione e di affermazione dell’identità ora è diventato l’elemento necessario per somigliare a un gruppo di cui si vuole fare parte. “Essere alla moda” vuole dire, ormai, essere uguali agli altri

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Così, se per i nostri genitori possedere i jeans a zampa era sufficiente per sentirsi trendy in ogni stagione, oggi noi ne compriamo cinque o sei all’anno – nel migliore dei casi -, dimenticando e, normalmente, gettando nel cassonetto ciò che non piace più o non va più bene.
La colpa non è solo del consumismo compulsivo: le stoffe della moda cheap&chic presentano una qualità decisamente inferiore rispetto al puro denim, al cotone, alla lana o alla seta, che ormai vengono considerati tessuti rari e venduti a carissimo prezzo. Le magliette sintetiche si scoloriscono, i maglioni di acrilico infeltriscono, i jeans di elastane diventano stracci dopo qualche mese.

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Che voi siate seguaci di “I love shopping” o afflitti da tessuti per cui vale solo un “è tutto” di Miranda Priestly, il risultato resta invariato: in Italia, ogni anno finiscono nella spazzatura 36 milioni di euro in abiti usati, per un equivalente di 240.000 tonnellate di tessile. Rivolgendo uno sguardo all’Europa, invece, il consumo annuo di abiti, accessori e prodotti tessili è di circa 10 kg/anno per abitante.
Considerando che per fare un maglione servono circa 4/5 kg di lana, equivalenti a circa 4 pecore, e che ogni pecora all’anno beve mediamente 3650 litri di acqua, il danno arrecato, oltre ad essere economico, ha un enorme peso ambientale.

In molti paesi, tra cui il nostro, il nudismo è una pratica illegale e decisamente pericolosa per la nostra salute, specie in inverno. Senza ricorrere a rimedi estremi, si può però cercare di limitare l’impatto del nostro vestire attraverso molti altri canali.

Primi fra tutti, i gruppi presenti su Facebook ed i social network, così come i gruppi di acquisto solidale: sono numerosissimi gli scambi, i regali e le vendite a prezzi ribassati, molti dei quali divisi per regione.

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In secondo luogo, si può cercare di allungare la vita dei capi acquistando stoffe certificate e di buona qualità, in modo che non si rovinino in breve tempo. Se poi ce ne vogliamo sbarazzare ci si può rivolgere ai mercatini dell’usato. Se sono ancora in buono stato, inoltre, i missionari sapranno chi fare felici: donando i vestiti dismessi agli enti di beneficenza delle nostre città contribuiremo anche alla lotta contro la povertà.

Se non sono più adatti a queste vie, possiamo sempre cimentarci nel riciclo creativo, provando a dare nuova vita ai nostri indumenti, ed acquistando così capacità che faranno felici anche il nostro portafogli. In fondo, rammendare i calzini non sembra un’impresa impossibile!

Infine, c’è la strada del cassonetto. Anche in questo caso, non gettiamoli ovunque: a gestire le raccolta italiana di abiti usati è il CONAU (Consorzio Nazionale Abiti Usati), che ha come obiettivo assicurare, razionalizzare, organizzare, disciplinare e gestire la raccolta di abiti e accessori usati provenienti dalla raccolta differenziata. Questa, infatti, resta la condizione indispensabile per garantirne il recupero e lo smaltimento corretto.

logo quadrato con claim trasparentedi Silvia Faletto Baciorda per eHabitat.it